I don’t care about existing
Mostra personale di Viola Morini
A cura di collettivo goo
26 gennaio – 2 marzo 2024
Alla bocca di un vulcano. Sì, bocca; e lingua di lava. Un corpo, un mostruoso corpo vivente, maschio e femmina insieme. Emette, erutta. È un interno anche, un abisso. Qualcosa di vivo, che può morire. Qualcosa di inerte che entra in agitazione, di tanto in tanto. Che esiste solo a intermittenza.
Un’innamoratə non è mai unə scetticə: sceglie di credere, di desiderare e di immaginare. Ma credere in che cosa? Cosa desiderare e cosa immaginare? Il romanzo L’amante del vulcano di Susan Sontag si apre con un’epigrafe tratta dall’opera Così fan tutte di Mozart: “Nel petto un Vesuvio d’avere mi par”. Un incipit che richiama subito alla mente la passione, il ribollire divorante del desiderio che, come la lava, annienta tutto quello che tocca. Un vulcano è difficile da definire. Non è solo una complessa struttura geologica ma, nel corso dei secoli, simboli e metafore si sono stratificati l’uno sull’altro, creando significati compositi e spesso ambivalenti. Il vulcano è infatti anche emblema di distruzione, dell’incontrollabilità della natura e dell’impotenza dell’umano di fronte ad essa. Ciò nonostante, uno dei primi esperimenti che facciamo da bambin3 richiama proprio l’eruzione vulcanica, un’esplosione di bicarbonato e aceto che ci permette di creare una relazione con qualcosa di lontano e spaventoso, attraverso la sua rappresentazione in miniatura. Una tensione tra vivere, conoscere, avventurarsi e possedere che lega l’amore alla scienza in quanto strumento di sopraffazione dell’umano sulla natura e che il vulcano riesce contemporaneamente a rappresentare e mettere in discussione. Non è un caso che l’iconografia del vulcano ritorni in diverse opere d’arte femministe: simbolo di rabbia, distruzione ma anche forza creatrice. Proiettiamo sul vulcano tutta la rabbia, la complicità con le forze della distruzione, l’angoscia per la nostra capacità di sentire che sono già nella nostra -.2In tutte queste letture, il vulcano incarna un paesaggio in cui il desiderio, nella sua duplice valenza di conoscenza e distruzione, può essere messo in scena.
In questa nuova serie di lavori, sviluppata appositamente per la mostra I don’t care about existing presso BoA Spazio Arte, l’artista Viola Morini adotta il vulcano come elemento familiare e allo stesso tempo alieno. L’installazione inizia dalle vetrine della galleria, per cui l’artista ha creato vetrofanie site-specific su cui vengono riportati alcuni testi tratti da Not Listening (but) i hear you, performance del 2023 in cui l’artista dialoga con uno dei vulcani in miniatura da lei creato. Dopo mesi trascorsi insieme nello studio, l’artista e il vulcano si stanno per separare, in un incontro tra soggettività e oggettività, tra umano e non-umano, tra amore, cura e possesso. Il cuore dell’installazione I don’t care about existing (2024) sono proprio otto vulcani di cartapesta dipinti ad acquarello, che si ergono su due piedistalli: sono modellini, astrazioni, corpi organici e mappe visive delle relazioni di Morini, che si articolano in un intreccio di materiali, oggetti, dettagli e significati. Sulla musica composta da Arda Aldemir, l’artista legge il testo di Not Listening (but) i hear you, un intervento sonoro che contribuisce a rendere l’installazione immersiva e multisensoriale. La sensazione di accoglienza viene amplificata dalla morbida moquette che riveste lo spazio interno della galleria. Alle pareti, i disegni fanno da appendice all’installazione principale, creando un nuovo piano immaginativo in cui i vulcani vengono ritratti in ambienti e situazioni fantastiche.
I vulcani di Morini invitano i visitatori a creare una relazione con qualcosa che nella realtà è pericoloso, incontrollabile e inconoscibile, ma che si presenta all’interno della mostra come un oggetto tangibile e, anzi, avvicinabile. L’artista prende spunto dall’ambito scientifico, che ricorre all’illustrazione e alla creazione di plastici per rappresentare e studiare fenomeni naturali ed elementi anatomici non fotografabili e, pertanto, difficilmente conoscibili nella loro interezza. Parallelamente, i vulcani di Morini si animano di affetti e parole, diventando non solo la rappresentazione di qualcosa di lontano ma la materializzazione di relazioni personali presenti e passate, di cui l’artista enfatizza ancora di più il valore immaginario. Proprio la complessa simbologia legata ai vulcani porta Morini a sceglierli come autoritratti, otto diverse riflessioni su come funzionano le relazioni, in cui l’artista parte dal personale per parlare di un’esperienza condivisa e collettiva. Come in un esperimento scientifico, il processo verso la conoscenza produce un’astrazione.
Tornando al parallelo tra conoscenza e possesso, in L’amante del vulcano Sontag descrive l’esperienza con il vulcano come qualcosa di inafferrabile. Stava vedendo qualcosa che aveva sempre immaginato, sempre voluto sapere […] Non si può mai sapere abbastanza, vedere abbastanza. Quanto smaniare qui.3 Rifacendosi alla pratica e all’iconografia transfemminista, il vulcano diventa per Morini un simbolo di autodeterminazione interspecifica, un invito a scardinare le epistemologie tradizionali per rivendicare la conoscenza come strumento di creazione e alleanza. Uno spazio di immaginazione e fantasia in cui ripensare se stessə e il proprio rapporto con il mondo; riconnettersi alla terra e superare ogni forma di binarismo. L’opera artistica di Morini ci spinge a riflettere sulle nostre relazioni e sulle cose e, contestualmente, le persone che non possiamo afferrare e controllare.
Riappropriarsi del proprio desiderio fuori dalle sovrastrutture patriarcali non è però un processo lineare né individuale. In Love is a radical concept (2022-2024) l’artista riflette sulle contraddizioni insite nelle relazioni d’amore. In questa serie di dieci sculture, pensate come regali Morini parte dalla propria esperienza personale per riflettere sui rapporti umani andando oltre le categorie relazionali tradizionali, e mettendo in discussione il modo in cui vengono definiti e gerarchizzati all’interno della società. La sovrapposizione di materiali, oggetti e suggestioni contribuisce ad evocare i ricordi di qualcosa che è successo ma che è nuovamente inconoscibile poichè il racconto non può che essere parziale, soggettivo e frammentato. La pratica della rappresentazione è nuovamente una forma di rielaborazione e di astrazione, in cui la relazione diventa un prisma attraverso cui guardare all’affettività in tutte le sue forme.
Fuori da ogni nichilismo, I don’t care about existing non è una negazione dell’esistenza ma una riflessione sull’amore e sulla cura, sul desiderio che annienta e che crea, sulla volontà di conoscenza e di possesso. Gli spazi di BoA diventano un ambiente immersivo che accoglie lə spettatorə e lo invita in una dimensione di ascolto e riflessione, in cui utilizzare la fantasia come forza creatrice e l’amore come una pratica di libertà. Al vulcano non importa di esistere, se esistere significa essere conosciuto e posseduto da noi. Nel suo lavoro, Morini ci parla della conoscenza come espressione di un desiderio inesprimibile: conoscere significa simultaneamente collezionare una collezione impossibile da completare e compiere un atto di amore. Ma, per l’artista, questo amore deve essere libero da ogni volontà di controllo, un’azione, un processo di conoscenza e di guarigione che crea comunità e non si rinchiude in se stesso, come descritto dall’autrice bell hooks in Tutto sull’amore (2001). Esistere, ci suggerisce Morini, è riuscire a creare una relazione con l’inafferrabile e l’inconoscibile, parti inevitabili dell’esperienza umana; con la contraddizione insita nel desiderio. Esistere significa stare nella bocca del vulcano.